lunedì 17 giugno 2013

IL RAPPORTO TRA COSCIENZA E INCONSCIO. Approccio filosofico e psicanalitico per affrontare l’esistenza.

Il tema dell'incontro, "Il rapporto tra coscienza e inconscio. Approccio filosofico e psicanalitico per affrontare l'esistenza", nasce da una riflessione sui domini della filosofia e della psicanalisi, sulle relazioni che possono esistere tra le due discipline, su quanto di filosofico possa trovarsi nel lavoro psicanalitico e viceversa. Il tutto all'interno di un contesto in cui, nel corso degli ultimi 30/35 anni, la filosofia ha provato a rinverdire le proprie abilità "pratiche", le neuroscienze hanno fatto passi da gigante nell'individuare quale tipo di attività cerebrale sovrintenda a certi stimoli ed emozioni valorizzando una visione realistica del mentale, in cui la filosofia di stampo analitico si è cimentata anche con gli strumenti della ricerca empirica nel costruire varie forme di filosofia, compresa la neuro-filosofia e la filosofia della mente.

Procedendo da questa premessa cercherò di proporre una visione filosofica della coscienza per poi provare a dimostrare come psicanalisi e filosofia non siano discipline agli antipodi ma come, anzi, esse possano avere un futuro segnato: quello di confrontarsi, collaborare e potenziarsi a vicenda potenziando con gli strumenti della moderna ricerca scientifica i propri tradizionali territori che forse non saranno più antitetici ma confinanti e, talvolta, intersecantisi.
Cosa intendiamo per "coscienza".
Essa è un dato o un atto? È una cosa o è conseguenza di quanto avviene in una determinata rete cerebrale, attiva in stato di veglia, preposta alla previsione del futuro, alla memoria autobiografica, alla theory of mind, ai pensieri spontanei, composta da corteccia prefrontale mediale, corteccia polotemporale e corteccia interna loboparietale, definita dalle neuroscienze più aggiornate "default network"? È, quindi, un mix di intenzionalità, soggettività, unità o il puro risultato di attività elettrochimiche del cervello che determinano i nostri pensieri, atti, sentimenti?
L'approccio che propongo è, naturalmente, di tipo filosofico e, pertanto, anticipo quelli che a mio parere sono la ragione e il lavoro della filosofia e, per farlo, cito l'introduzione di Tiziana Andina al volume Filosofia Contemporanea (Carrocci ed. 2013). "La ragione della riflessione filosofica è quello spazio logico e concettuale in cui si articolano le relazioni tra il soggetto e il mondo da un lato, e dei soggetti tra loro, dall'altro", e ancora "il lavoro che la filosofia deve svolgere riguarda perciò almeno due ambiti. Da un lato, quello della chiarificazione concettuale, più che mai necessario per raffinare i nostri ragionamenti, la nostra comprensione della realtà e, si spera, le nostre azioni. Dall'altro, invece, quello che investe la costruzione di visioni dello "spazio umano" sistematiche e articolate, capaci di sostenerci nello sforzo della creazione di senso che siamo chiamati a compiere tanto nell'ambito della vita privata quanto in quello della dimensione etica e pubblica". Ciò non sarà possibile se non avremo chiaro cosa è la coscienza, come opera e quale rapporto esiste con la dimensione inconscia.
La moderna visione della coscienza viene introdotta da Leibniz che parla di "aperceptions" cioè di quel processo  attraverso cui le percezioni arrivano a livello cosciente.
Wilhelm Wundt (1832-1920) nei Fondamenti di Psicologia Fisiologica del 1873 scrive: "Essendo la coscienza di per sé, per definizione, la premessa di ogni esperienza interiore, essa non può riconoscere immediatamente l'essenza di se stessa" e siccome "la coscienza consiste nel fatto di constatare in noi stessi certi stati e fenomeni, la coscienza stessa non è uno stato o condizione suscettibile di separazione da tali processi interiori".
Se nel corso della storia recente la psicologia ha letto la coscienza come entità, facoltà o cosa, la fenomenologia husserliana ha reagito definendola "atto caratterizzato da intenzionalità diretta alle cose" per cui, secondo Edmund Husserl in Ricerche Logiche (1913), "io non vedo delle sensazioni di colore ma degli oggetti colorati, né intendo sensazioni uditive ma la canzone del cantante".
Viene, quindi, negata la coscienza come cosa e riaffermata come atto. Essa non è un campo interiore in cui si raccolgono le percezioni provenienti dall'esterno, ma un originario fuori-di-sé o, per dirla secondo Maurice Merleau-Ponty, una trascendenza: "Gli atti dell'io sono di natura tale che oltrepassano se stessi per cui non c'è intimità della coscienza. La coscienza è da capo a fondo trascendenza, non trascendenza subita - perché una simile trascendenza sarebbe il ristagno della coscienza - ma trascendenza attiva. La coscienza che ho di vedere o di sentire non è l'annotazione passiva di un evento psichico chiuso in sé e che mi lascerebbe incerto circa la realtà della cosa sentita o vista (...) ma è il movimento profondo di trascendenza che è il mio essere stesso, il contatto simultaneo con il mio essere e con l'essere nel mondo" (Fenomenologia della percezione, 1945).
Martin Heidegger si muove sulla stessa linea quando, in Essere e Tempo (1927), afferma che "nel comprendere, l'Esser-ci non va al di là di una sua sfera interiore, in cui sarebbe dapprima incapsulato; l'Esser-ci, in virtù del suo modo fondamentale di essere, è già sempre 'fuori', presso l'ente che incontra in un mondo già sempre scoperto".
Jean-Paul Sarte, da parte sua, distingue in L'Essere e il Nulla (1943) l'essere-per-sé della coscienza dall'essere-in-sé delle cose negando che la coscienza possa essere trattata come una cosa perché, a differenza delle cose, essa è presente a se stessa. "L'essere della coscienza, in quanto coscienza, è di esistere a distanza da sé, come presenza a sé, e questo niente di distanza che l'essere porta nel suo essere è il nulla".
Il teorema dell'intenzionalità che Husserl aveva ripreso da Franz Brentano per il quale essa è il carattere specifico dei fenomeni psichici la cui natura è di "tendere-in" e "riferirsi-a", è seguito da Karl Jaspers secondo cui "l'essere della coscienza non è come quello delle cose ma la sua essenza è nell'essere diretto intenzionalmente agli oggetti. Questo fenomeno originario, tanto evidente quanto sorprendente, è stato chiamato intenzionalità" (Filosofia, 1933). La coscienza, però, sempre secondo Jaspers, non è solo diretta all'oggetto ma riflette anche su di sé ponendosi come autocoscienza: "L'io-penso e l'io-penso-che-penso coincidono in modo da non poter esistere l'uno senza l'altro" (Filosofia, 1933).
Ho iniziato citando la filosofia degli ultimi decenni e la sua considerazione, soprattutto in ambito analitico, del lavoro delle neuroscienze. Nel 1974 Thomas Nagel pubblica su Philosophical Review un articolo dal titolo What is it like to be a bat (Che cos'è come essere un pipistrello) in cui, pur accettando quanto emerge dalle ricerche delle neuroscienze, distingue coscienza da mente definendo la coscienza il carattere fenomenico della nostra vita mentale. Tra i costituenti ultimi del reale, secondo Nagel, devono essere annoverate anche le "proprietà fenomeniche", cioè quelle sensazioni pure accessibili soltanto da un punto di vista soggettivo che ci rendono coscienti delle esperienze che viviamo. Esistono ragioni di principio, sempre secondo Nagel, per cui un'analisi della mente svolta esclusivamente in termini fisici non prende in esame il fenomeno della coscienza come aspetto della nostra vita mentale.
Ma è possibile sapere cos'è come essere un pipistrello? Apparentemente no perché secondo Nagel esistono due punti di vista. Il punto di vista soggettivo proprio di chi occupa una specifica posizione nello spazio e vede la realtà che lo circonda da quello specifico punto di vista connesso allo specifico apparato sensoriale e allo specifico sistema cognitivo di un organismo. Il punto di vista oggettivo secondo cui, come la coscienza è relata a uno specifico punto di vista, la descrizione della coscienza non è relata a tale specifico punto di vista ma ha, appunto, valenza oggettiva.
Tuttavia, l'individuo ha una facoltà, l'immaginazione, che consente di comporre questo conflitto permettendo, conoscendo le modalità di rapporto con la realtà di un pipistrello attraverso osservazione e sperimentazione, di immaginare il punto di vista soggettivo del pipistrello stesso.
Frank Jackson propone, invece, l'argomento della conoscenza distinguendo informazione fisica relativa a processi cerebrali, alla descrizione del ruolo funzionale o causale svolto da uno stato mentale (ciò che lo stato mentale rappresenta) dall'informazione fenomenologica (esperienze percettive, sensazioni corporee, esperienze emotive) offerte dalla coscienza costituita da stati mentali dotati di caratteristiche fenomeniche, cioè dai qualia.
Daniel Dennet si pone, invece, a difesa del fisicalismo quando afferma che se qualcuno sa tutto di qualcosa dal punto di vista fisico senza averlo mai visto, non ci fa sapere ciò che conosce e ciò che non conosce. Poiché la conoscenza è nuova solo in apparenza trattandosi in realtà di conoscenza di fatti vecchi, l'ipotesi di Dennet è che si possa solo distinguere tra conoscenza proposizionale, che verte propriamente attorno a qualche fatto, e conoscenza procedurale, che otteniamo quando impariamo a fare qualcosa.
Ned Block distingue coscienza fenomenica, cioè ciò che si prova ad avere una certa esperienza o in generale ad avere uno stato mentale, da coscienza d'accesso in cui, perché uno stato mentale sia cosciente, non è necessario che il soggetto abbia particolari sensazioni o provi alcunché di caratteristico.
Ho fin qui abusato dell'attenzione per mostrare come la filosofia si sia confrontata con il concetto di coscienza interpretandolo in modi tra loro diversi, talvolta opposti. Dal mio punto di vista, la coscienza - in quanto atto costituito da fenomenicità e caratterizzato da intenzionalità, consente all'essere umano di essere presente al mondo e a se stesso, di costituirsi in termini di consapevolezza e auto-consapevolezza, in termini cioè di soggetto - è dominio proprio della filosofia che, in quanto spazio logico tra uomo e mondo (laddove per mondo è da intendersi l'io fenomenico, gli altri esseri umani e il territorio naturale, animale e sociale), agisce sul mondo stesso, inteso come sopra, dotandolo di senso e significato. La coscienza è dominio e attivatore allo stesso tempo della riflessione del soggetto sull'uomo e sul mondo. Essa ha proprietà previsionali, autobiografiche, mentali e di pensiero che la determinano in quanto intenzionale, soggettiva, unitaria.
Antonio Damasio ne Il sé viene alla mente (2010) afferma che la coscienza "non riguarda soltanto le immagini presenti nella mente, come minimo, essa riguarda un'organizzazione dei contenuti della mente che hanno il loro centro nello stesso organismo che li produce e dà loro motivazione. La coscienza (...) è anche una mente in grado di sapere che un tale organismo vivente e agente esiste. Di certo, il fatto che il cervello riesca a creare configurazioni neurali che mappano gli oggetti sperimentati come immagini è una parte importante del processo della coscienza. (...) La semplice presenza di immagini organizzate che scorrono in un flusso mentale basta a produrre una mente; se però non viene aggiunto un qualche processo supplementare, quella mente rimane incosciente. Ciò che le manca è un sé. Per diventare cosciente, il cervello deve acquisire una nuova proprietà, la soggettività (...). Affinché la mente diventi cosciente, il cervello deve generare un soggetto di conoscenza, comunque lo si voglia chiamare: sé, soggetto dell'esperienza, protagonista. Nel momento in cui il cervello riesce a introdurlo nella mente, ecco che emerge la soggettività".
È possibile, dunque, a mio parere, situare filosofia e psicanalisi nello stesso territorio, quello della soggettività e pensarne il rapporto come una sorta di associazione-a-costituire-il-soggetto indagandone l'inconscio per farlo emergere e chiarificandone il conscio consapevoli come con il lavoro psicanalitico e filosofico si possa costruire il soggetto.

Alcuni spunti seguiti alla discussione.
Non è pensabile indagare concetti prescindendo dal soggetto che li esprime o cui gli stessi si riferiscono.
Non esiste ermeneutica senza analitica. Così, un concetto, ben prima di essere un universale o una precisa definizione tale che non sia più possibile una conoscenza incerta e opinabile, è una rappresentazione mentale dotata di capacità intenzionale e possibilità inferenziale.

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